Il suo Darwin’s Journey è stato uno dei titoli più attesi dell’ultimo anno, ma la carriera di Nestore Mangone conta molti altri successi ed è già quella di un acclamato professionista del settore. In questa intervista esclusiva per Dudexpress, il co-autore di Newton e Autobahn ci svela i particolari del mondo che si nasconde “oltre la scatola”, con una punta di sarcasmo. Insieme, abbiamo parlato del suo percorso da game designer, del suo approccio con l’ideazione e lo sviluppo dei giochi, nonché della situazione dell’editoria ludica in Italia.

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Ricordi il primo gioco che hai ideato? Non parliamo di quelli che sono arrivati sugli scaffali, ma proprio del primo prototipo che magari avevi realizzato per giocarlo con gli amici, e che forse non è mai uscito da quella stanza.

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Sì lo ricordo bene, si chiamava Cosmologic. I giocatori si reincarnavano cercando di rinascere in momenti astrali favorevoli e poi dovevano decidere se fare azioni buone o cattive, accumulando e spendendo segnalini Karma. A dirla così sembra una buona idea, ma non lo era. Il gioco comunque ha partecipato a un concorso ma alla fine l'ho abbandonato. Tra l'altro non so perché fossi affascinato dall’astrologia, dato che fondamentalmente sono un materialista.

Qual è stato il tuo percorso formativo come autore di giochi? Al momento costituisce la tua professione principale?

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Il game design è la mia professione principale. Diciamo che dopo la pubblicazione di Newton ho capito che potevo dedicarvi tutto il mio tempo. Ho scommesso su di me e per ora mi sta andando discretamente. Oltre a creare giochi mi occupo anche di consulenze per aziende o privati che vogliono approcciarsi alla pubblicazione, soprattutto attraverso crowdfunding. Il mio lavoro di consulenza funziona più o meno così: un aspirante autore/editore mi presenta il proprio progetto editoriale che vuole lanciare su una piattaforma di finanziamento; io guardo tutto, ci ragiono un po' e poi lo insulto cercando di distruggere ogni sogno di gloria, ogni illusione e pretesa futura; la cosa bella è che vengo pagato per farlo! Nella fattispecie mi occupo principalmente del gameplay e di tutto ciò che riguarda quello che succede al tavolo, tra i giocatori.

Qual è il gioco di cui vai più fiero, tra tutti quelli che hai creato? E perché?

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Newton è il gioco che mi dà più soddisfazioni a livello di gameplay. Lo gioco spesso e mi piace molto lavorare costantemente per ampliarlo con nuove espansioni e materiali extra, anche se l'editore non sempre ha bisogno di tutta questa eccessiva produzione di contenuti (rido).

Una volta José Mourinho disse “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”. Credi che sia vero anche per i giochi? E nel tuo caso, quali sono gli altri media o interessi che confluiscono nel design di un gioco?

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Sono un accanito lettore di saggistica e sporadicamente narrativa e fumetti, mi piacciono molto le serie televisive che divoro avidamente e ascolto tantissima musica, principalmente metal. Inoltre scrivo e in passato mi sono dedicato alla fotografia e all'arte figurativa. Prima di sbarcare nel game design ho anche circumnavigato molte isole.
Mi sono sempre interrogato sulla natura della creatività e se serva ampliare i propri interessi, coltivare tanti stimoli per essere migliore nel proprio campo. Ma non ho la certezza che le due cose siano legate causalmente. Sono un buon creativo perché sono fondamentalmente curioso? Boh. Non so se frequentare gli altri media sia una palestra per la mia mente o solo una perdita di tempo. Di sicuro so che non è necessario essere delle brave persone per essere dei bravi creativi. La storia è piena di bravi creativi che sono state delle teste di cazzo.

La tua produzione conta prevalentemente eurogame di peso medio-alto. È questo il tipo di esperienza che cerchi da giocatore, oltre che da autore? Perché?

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Diciamo che gli eurogame di peso medio-alto sono i giochi che mi riescono meglio, ma ho anche molti progetti per giochi di peso inferiore. Sto sviluppando un gestionale in stile american e il mio sogno nel cassetto è dare vita a un gioco di ruolo. Insomma, non mi faccio mancare niente, ma la cosa che mi tiene più orientato verso i gestionali euro è che mi danno grande soddisfazione nel giocarli. Ho bisogno di una sfida che mi tenga al tavolo un paio di ore e mi estranei da tutto per essere davvero soddisfatto. Questa “attitudine da giocatore” credo che influenzi molto il mio stile di design.

Guardando il ranking dei giochi a cui ha lavorato su BoardGameGeek notiamo che i titoli della top 3 sono frutto di una fortunata collaborazione con Simone Luciani. Come è nato questo binomio? E soprattutto, cosa vuol dire fare squadra per un lavoro concettuale in cui l’equilibrio delle parti e delle idee è così importante, come nel caso del design del gioco?

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Luciani è l'autore che mi ha fatto entrare a pieno titolo in questo mondo grazie a Newton, un mio progetto originale che gli piacque molto e grazie al quale abbiamo iniziato a collaborare lavorandoci a quattro mani per definirlo. Lavorare con Simone è stimolante perché ha le idee chiare e quindi si parte subito sapendo quale obiettivo perseguire, sia per quanto riguarda il target, ma anche le dinamiche che si vogliono ottenere al tavolo partendo da un'idea. Inoltre con Simone condividiamo varie passioni, tra cui gli argomenti di carattere scientifico. Lavorare in coppia ha molti vantaggi, ad esempio fare brainstorming in due è estremamente produttivo. Ma bisogna saperlo fare, è un fatto caratteriale, ci vuole molta umiltà e alcune volte pazienza.

La tua ultima opera, “Darwin’s Journey” è stata frutto di una fortunatissima campagna Kickstarter, come è ormai divenuto quasi obbligatorio per la maggior parte dei grandi (ma anche piccoli) titoli che stanno uscendo negli ultimi anni. Credi che quello del crowdfunding sia il futuro dell’editoria ludica che dobbiamo augurarci? O è semplicemente inevitabile?

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Ora che stiamo scrivendo ho già partecipato ad altri due Kickstarter e quindi possiamo dire che Darwin's Journey è già roba “passata”. La fortuna è il cardine dell’editoria, e quando è così non ha senso fare previsioni sul futuro. A riguardo posso solo esprimere una speranza personale: spero che i giocatori diventino abbastanza maturi da premiare i giochi con un buon gameplay, giochi sfidanti con meccaniche ingegnose, più che andare dietro all'estetica o al marketing. Non ho niente contro i giochi belli e un buon lavoro di marketing, ma nella mia libreria entrano solo giochi che mi soddisfano davvero a livello di sfida intellettiva, anche se sono esteticamente brutti o sconosciuti alla massa. Quando il crowdfunding riesce a soddisfarmi da questo punto di vista... ben venga. Altrimenti è solo un altro modo per produrre spazzatura che finirà nelle discariche tra cinquant'anni. Dall'altro lato c'è l'editoria classica che almeno ti dà un margine di sicurezza. Ci sono autori ed editori che stimo così tanto da comprare i loro giochi praticamente a scatola chiusa e raramente sono costretto a rivendere il gioco.

Spartaco Albertarelli dice che “inventare giochi è forse l’unica attività che tutti noi conosciamo perfettamente sin dall’infanzia”. Ciononostante (o forse non a caso) un percorso formativo standardizzato di board game design non si vede che all’orizzonte, almeno qui in Italia. Al momento noi conosciamo solo la masterclass di Tambù Create, il corso della Event Horizon (che purtroppo l’anno scorso non è partito per penuria di iscritti) e quello della Scuola Holden (che non è esattamente accessibile, in termini economici). Il resto è fatto perlopiù di libri, e quindi di autodidattica. Secondo te questa situazione dipende da motivi strutturali, nel senso che non esiste un corpus definito di tecniche e conoscenze specialistiche, oppure è una semplice conseguenza della scarsa domanda di figure professionali in questo settore?

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Sono un paio di anni che ragiono sulla possibilità di creare un corso inaccessibile economicamente per spiegare alla gente come fare giochi, ma non mi sono ancora cimentato nell'impresa. Il corso funzionerebbe più o meno così: una decina di persone speranzose (e più povere del giorno prima) si siedono intorno a un tavolo, quindi il relatore dice loro di giocare molto, impegnarsi tanto e avere molta fortuna. Un corso di cinque o sei secondi in pratica.
Per quanto riguarda la scarsità di percorsi formativi, a determinarla è proprio l'assenza di domanda di figure professionali specifiche da parte dell'industria del gioco da tavolo, industria che in Italia è praticamente inesistente. A parte quattro o cinque solide realtà editoriali, tutti gli altri sono persone ricche e appassionate che spendono alcuni soldi per fondare micro-imprese (e non sempre questo è un male). Inoltre parliamo di un mondo microscopico che si trova ai suoi albori e che ha bisogno di tante cose, ma non di un'accademia o di pontefici. Volete fare game design? Create, divertitevi e non pensate ossessivamente alla pubblicazione o alla professionalizzazione, se sarà il caso quelle cose arriveranno da sole, altrimenti vi sarete solo divertiti (che non è poco). Ovviamente questo discorso ha senso solo nell'ambito in cui ci troviamo, ossia quello di una mancanza di richiesta di specializzazione. Forse le cose cambieranno tra qualche anno, chi può dirlo.
Non so con precisione quale sia lo stato delle tecniche e delle conoscenze standardizzate, sicuramente qualcosa si sta addensando, ma spero di non vivere abbastanza per vedere il momento in cui entrerò a casa di qualcuno e trovare un diploma di game design appeso nello studio. Escludendo l'idea di mettere dell'esplosivo nella scatola (una proposta che ho ricevuto davvero), siamo ancora alle frontiere di una terra selvaggia ed eccitante: vogliamo davvero già tornare indietro e barricarci in una fortezza-accademia?

Secondo un articolo apparso sul Washington Post, stiamo vivendo l’età dell’oro dei giochi da tavolo. Ogni anno vengono pubblicati sempre più giochi, e anche il pubblico è cresciuto, probabilmente anche per via della pandemia che per diversi mesi ci ha tenuti in casa e ha spinto molti a cercare nuove forme di intrattenimento e socialità. E tuttavia al gioco da tavolo non viene ancora riservata quell’attenzione pubblica di cui altri media godono. Pensi che ci sia qualcosa nella natura stessa del gioco da tavolo che gli rende difficile (o impossibile) fare questo tipo di “salto”? O la community sta sbagliando qualcosa?

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Potremmo parlare per ore delle cause dell'andamento dell'editoria in Italia, ma sarebbero solo mezze intuizioni che non hanno fondamenti concreti. Il mercato è piccolo, ma in crescita. Questa è l'unica cosa che conta. Nella sua definizione si incrociano questioni culturali, legate alla percezione storica del gioco da tavolo, problemi legati alle contingenze economiche, influenze culturali provenienti dai “ruler” di questo mondo (gli statunitensi) e decine di altre variabili. I singoli attori non hanno nessuna possibilità di influenzare uno schema così complesso e virgulto. Del resto se non c'è modo di condizionarlo non c'è problema da risolvere, bisogna solo restare aggiornati per cogliere le opportunità e in questo momento ce ne sono tante.
Anche sul crowdfunding abbiamo spesso una visione distorta, il fenomeno si sta evolvendo velocemente, piccole realtà possono trovarne ancora giovamento, ma le cose sono cambiate velocemente. Per esempio, il sistema di tassazione in Italia è cambiato in peggio, segando le gambe a chi immaginava di trarne profitti stratosferici. Un'altra grande incognita riguarda la manifattura e la logistica: in Europa si produce a prezzi esagerati e la Cina nasconde insidie. Insomma, è una realtà da conoscere accuratamente prima di poter sentenziare. Io personalmente mi occupo di fare buoni giochi, ai massimi sistemi ci pensino gli altri.

Ringraziamo Nestore per averci concesso il suo tempo e il suo entusiasmo rispondendo alle domande che gli abbiamo posto. Noi di Dudexpress non possiamo che essere onorati dall’averlo avuto come primo ospite di questa rubrica che ci auguriamo possa diventare un appuntamento fisso.
La realtà del gioco in Italia è complessa e spesso i suoi meccanismi sono poco conosciuti a noi che sediamo al tavolo. Nestore ha fatto luce su diversi punti-chiave di questa giovane industria, grazie alla sua lunga esperienza da autore e consulente, ma noi già non vediamo l’ora di parlare con altre figure professionali che possano aiutarci a capire cosa vuol dire fare giochi, e farli nel belpaese.

Angelo M Pero

Angelo M Pero

Dopo aver lasciato gli studi in Lettere per incompatibilità di carattere, deve ancora capire cosa fare nella vita. Nel frattempo si diletta nella scrittura e nei giochi da tavolo. Ama i vampiri e il Giappone.